L'archetipo primo: il padre
Testo di Alice Brusa, studentessa esterna alla Redazione
Estate
tu che con gli anni
e l'ingiallimento
mi ricordi sempre più lei
lei con cui non ho osato
per paura
lei con cui non ho rimediato
per rabbia
Il mese estivo in balia di un passeggero sentimento e di una leggera nuvola che di tanto in tanto, ricordava al tempo il suo scorrere; quel lieve e placido sentire il caldo passare.
Era la mia città, dal nome dolce e altisonante: Berlino. L'unico trittico di sillabe che si pronunciava diversamente, che con nostalgica malinconia trascinava dietro di sé il cadavere della propria storia millenaria.
Era divisa, spaccata, lacerata da un colosso cementato, da un muro bisillabico che divideva la dolce parola in una scissione talmente denaturata da poter rimanere libido in eterno, astrattezza bilateralmente sperimentata.
E tu in quel sorgente inizio ancora non esistevi ma divenivi con i passanti, con il minuto e il secondo di qualche momento fa; dentro me eri paura, timore, a volte persino asma. Ti vedevo nell'oscurità di quelle quieti notti al calar della stagione, dentro le ormai dormienti tane del mio essere; eri fragilità in quel luminoso firmamento. Certe mattine quasi dimenticavo come fosse dall'altra parte.
Fine dell'estate - Autunno
il rosso,
ridondante,
di eterna insoddisfazione,
il sole,
infantilmente incappucciato
di strutturale mancanza,
la melanconia che assale
e spegne.
Autunno
A te che divenisti proprio con il lento cedere della prima foglia rossastra nel giallore di una mattina animata da quelle raffiche di brezza tipiche della stagione autunnale qui nella regione di 'Ostberlin', a te che nella tua evoluzione mutasti.
La mia ossessione per te finì per diventare, con il sorgere del nuovo sole, deleteria, pensavo e quasi registravo la mia esistenza quotidiana in modo da non dimenticare, da non dimenticarti. Una spaccatura in un muro che ormai era protezione, affezione, sicurezza, un padre nella mia disperazione recidiva.
Non riuscivo a immaginarti nella tua debolezza, come un dispetto, uno scherzo che avessi voluto infliggermi, una pena lancinante, un dolore insopprimibile.
Inverno
ricordo ancora le tue braccia,
lunghe, strette e ramificate,
strade d'inverno che si perdono,
solo per poi rincontrarsi
Era il 9 novembre 1989 e per la prima volta ti vidi. Che fosse il leggero rossore sulle gote causato dal freddo o la frenesia di quella corsa incessante e precipitante, ciò che realmente mi colpì di te quella notte fu l'immediatezza della tua immagine, il contorno che delineavi nello spazio, il permanere imperturbato su quel rocambolesco sfondo. Quando per la prima volta ti vidi, concreto frammento, scattai nel fremito della mia insicurezza, rimasi in acuta osservazione per qualche momento e fermai il naturale ordine per concentrarmi sul cambiamento. E forse un po' come te anch'io crollai, demolito e smantellato. Rilessi i poemetti che incessantemente ti avevo dedicato e al loro interno non ritrovai ora altro che la mia fredda fragilità, uno squallido nevischio, il mio polso gelido e tremante.
Eri stata lesione, frattura, fenditura, spaccatura e crepa e ora di te non era rimasto più niente, neanche la cicatrice.
ciò che più duole l'anima
è pensare a te in condizionale passato,
quel tempo che in un frangente
si trasforma in rimpianto;
guardarsi dentro
e non vedere niente
se non l'ombra che hai tracciato,
leggera e invisibile all'occhio,
pesante da lasciare un solco
così te ne andasti, sussurrandomi:
"avresti potuto amarmi"
Come se fosse una prossima passata primavera.